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domenica 12 maggio 2013

Amare letture: un post sui libri che poi non parla di libri nemmeno un po'




Mi ricordo la prima volta che ho letto un libro. Avevo 16 anni e  ai tempi non facevo che pensare al fatto che alla mia età fosse imbarazzante non aver ancora letto nulla; il fatto è che non mi era capitato di trovarne uno abbastanza interessante da spingermi a leggerlo per intero.
Ero un lettore incespicante tra mille inizi; già solo poche righe e la mia attenzione era altrove. Mi attraevano sì, le copertine, ma il contenuto non suscitava nulla. O meglio non l'aveva mai fatto prima di quella estate.

Me lo ricordo bene, il mio primo libro. Cioè, per essere più precisi non è che lo ricordi proprio bene, ma ricordo la sensazione che mi ha lasciato addosso. Ricordo che quando l'ho terminato la sensazione che ho provato era un misto di profonda tristezza e allo stesso tempo totale euforia.
La storia mi aveva preso così intensamente, mi ci ero immerso così a fondo che, se da un lato mi mancavano i personaggi e i luoghi, ero comunque cosciente del fatto che li avrei in qualche modo portati sempre con me. Questa sensazione mi confondeva, ma porto con me tutto quanto, ancora oggi.
Da allora iniziai a leggere sempre più avidamente, ma non ostante la quantità di tomi più o meno impegnativi, la lettura divenne ad ogni nuovo inizio un po' più lontana dalla sensazione di quel primo…
Ho letto libri d'avventura, romanzi fantastici e storici; saggi e racconti; poesie e poemi. Ciascuno più o meno breve; più o meno intenso.
Ho imparato allora che un racconto breve - perfino di un paio di pagine - poteva darmi emozioni forti e intense, a volte molto più di altri tomi più voluminosi, ché non è il numero di pagine. Ho imparato che esistono grandi gioie nascoste in poche frasi e - qualche volta - libri fatti di pagine e pagine e pagine e pagine piene di niente…

Alcuni li ho finiti di leggere soltanto perché una volta iniziati, sentivo di "doverli" finire, pur non avendone più voglia; libri che dopo il terzo o quarto capitolo già non mi catturavano più. E ancora, ho imparato a distinguerli da altri che mi rapivano per davvero, trasportandomi nei più diversi "altrove", ma che molto spesso - forse proprio per la forza di quel trasporto - finivano troppo presto. Libri divorati come il tuo piatto preferito o centellinati come un buon vino. Alcuni volati via nell'arco di una notte; altri durati per un tempo che a ripensarci ora non riuscirei bene a quantificare.

Col passare degli anni e delle letture il mio stesso modo di leggere ha iniziato a cambiare. Cercavo cose molto diverse da quelle che mi spingevano alla lettura da "piccolo". Se allora era la sfrenatezza della fantasia ad attrarmi, ora i miei bisogni si erano sofisticati. Imparando a conoscere meglio me stesso avevo nel contempo iniziato a capire di più che cosa cercare nei libri.
Quel loro potere era come diventato uno strumento, attraverso il quale potevo percepire la realtà in modo più ampio.
Mi arricchivano: a volte perché ci trovavo i miei "credo" più intimi, spiegati con parole che da solo non sarei mai stato in grado di mettere insieme; altre volte perché scardinavano quelle stesse convinzioni; e dopo l'ultima pagina mi ritrovavo sempre un po' diverso rispetto a chi ero prima di iniziare a leggere.

Se sei disposto a lasciare certe porte aperte, i libri possono arrivare a te da tutte le parti. Puoi vederne uno in una vetrina o dentro una libreria. Libri di cui non hai mai sentito il titolo né l'autore. Alcuni che vedi tra le mani di qualcun'altro e desideri per te. O possono esserti consigliati da un amico, che li conosce e "sa che questo ti piacerà: sembra scritto apposta per te. Vedrai se non ho ragione".

Sono un po' come la musica, per certi versi.

Poi però ce n'è uno… che mentre lo sfogli, con un'avidità che credevi persa da anni, ti dici che è la cosa più bella su cui ti sia mai capitato di posare gli occhi. Un libro che sembra contenere tutti gli elementi al proprio posto. Un libro perfetto non esiste, ma di certo esiste una combinazione alchemica di parole e emozioni; di forma e sostanza che sembra raccogliere in un unico percorso tutte le ramificazioni di quegli altri, in una disarmante armonia, un incastro così perfetto che ti stordisce.
Ma come tutti gli altri - nessuno escluso - è condannato ad avere un'ultima pagina. E ti ritrovi a leggere perfino le note a seguito. Ed è quando - in un picco di disperata, irrazionale mancanza - ti accorgi che stai temporeggiando sulle righe dell'indice analitico, pur di non smettere di leggere; quando realizzi che non stai riuscendo ad accettare la fine del viaggio; quando l'ostinazione sfora nel ridicolo, qualcosa si spezza. Irrimediabilmente.
E le letture seguenti si diradano, perché non è più la stessa cosa.
Ecco dove mi trovo, da circa due anni a questa parte. A volte mi impongo di leggere qualcosa, sperando che il moto si reinneschi.
Ma non è così che funziona.
E vorrei tanto riuscire a ricominciare. Perché mi manca da morire, leggere.

sabato 1 dicembre 2012

Gillian, datti una calmata

Gillian Lynne e sua madre

Gillian sedeva sulla sedia dello psicologo, mani sotto le cosce, spostando il peso da un lato all'altro e sentendo la pressione sui dorsi schiacciati contro il velluto con cui la sedia era foderata.
Accanto a lei, sua madre ascoltava il resoconto dei problemi disciplinari della bimba, elencati con gran serietà dal consigliere scolastico.
Non riusciva a seguire le lezioni con la giusta attenzione, non avrebbe tratto profitto dagli insegnamenti che quotidianamente le venivano impartiti. La madre ascoltava con composta preoccupazione.
La cosa andò avanti per un po' sino a che il consigliere, rivolgendosi direttamente alla bambina, disse:
"Gillian, cara, io e la tua mamma dobbiamo parlare di alcune cose in privato. Ti dispiacerebbe aspettarci qui?"

La bambina annuì senza emettere un suono e gli altri due si alzarono; uscendo dalla stanza, quasi con distrazione, lo psicologo accese la radiolina a transistor posta sullo scrittoio.
Una volta fuori, questi disse alla signora Lynne "ora guardi…"
Gillian era saltata in piedi e si muoveva al ritmo della musica.
Allora il consigliere poggiò una mano sulla spalla della signora Lynne per rassicurarla: "Gillian non è malata. E' una ballerina. La iscriva in una scuola di danza"

E così fu.

Questa storia non è farina del mio sacco, badate bene. E' stata proprio lei, Gillian a raccontarmela, . Le ho parlato la scorsa settimana e per descrivere l'ingresso nella scuola di danza vorrei usare le sue parole:
<< sono arrivata lì ed era fantastico. Era pieno di gente come me; tutti bambini che non riuscivano a stare seduti composti; pieno di gente che ha bisogno di muoversi, per poter pensare >>

Mi è rimasta in testa: "bisogno di muoversi per poter pensare"…

Non la tirerò per le lunghe… Gillian si diplomò, per diventare poi insegnante nella propria scuola e poco dopo coreografare alcuni dei più grandi musical della storia, divenendo tra l'altro ricca sfondata. E io non riesco a levarmi dalla testa la convinzione che un altro psicologo le avrebbe prescritto dei farmaci e detto semplicemente di darsi una calmata.

domenica 5 febbraio 2012

Una umanità meravigliosa


[squillo di telefono, scatta la segreteria]
Ciao Sophie, sono io, Sebastian. Se sei lì, ti prego, rispondi...

Ok, diciamo allora che non ci sei. Mi è successa una cosa, proprio ora. Dieci minuti fa, neanche, e volevo raccontartela...
 
[Sebastian sospira, accettando suo malgrado di confidarsi con una macchina]
... spero solo che questo affare non stacchi sul più bello. Comunque, dicevo...

Stavo tornando a casa - qui è tutto un manto di neve - e le strade sono ghiacciate. Sono passato accanto ad una di quelle cabine per le fototessere, hai presente? una di quelle grottesche scatole di plastica e metallo con su stampato il tizio col papillon rosso e la camicia a righe, che mostra sorridente la patente. Ha una tendina blu per porta e dentro lo sgabellino regolabile che gira su se stesso.

Da dietro la tendina ho visto spuntare due gambe, magre, avvizzite, in pantaloni lerci, corti e scarpe sfondate. Era un'immagine forte, a suo modo... o magari era l'aria gelida a darle maggiore impatto. Non saprei dire.

Sono salito su a casa e non riuscivo a non pensarci. Quella immagine era una scheggia conficcata nella testa (o come dici sempre tu: un sassolino nella scarpa), sicché sono andato a prendere una coperta di pile che da troppo tempo prendeva polvere, inutilizzata e sono tornato giù.
Ho "bussato" alla cabina e dentro c'era una vecchia, stretta in un abbraccio irrigidito con se stessa, vestita troppo leggera per questo cazzo di clima; mi guardava spaventata.
Senza dire una parola le ho porto la coperta, ma lei non la prendeva e allora ho parlato:
"Fa freddo. Prendi. Ti devi coprire..." e lei ha risposto spaventata "NO!".


Balbettava un "no" dopo l'altro, ripetuto ed ossessivo. Ho avuto la netta impressione che non fosse proprio a posto, ma non volevo che si agitasse e perciò non ho insistito. Ho poggiato la coperta subito fuori dalla cabina dicendole che la lasciavo lì mentre lei ripeteva ancora "no, no... io... no" e sono andato via.
Ebbene questa cosa mi ha fatto star male. E ancora ci sto pensando, sai? Fa un cazzo di freddo; ha ricominciato a nevicare...


Ho sbagliato le parole, Sophie? I modi? Tu dici sempre che li sbaglio, i modi... e per quel che riguarda le parole, beh, tu mi conosci: lo sai che sono in grado di fottermi il cervello a furia di cercarle, le "parole giuste". Avrei dovuto pregarla di accettare la coperta?

So cosa stai pensando... anche io all'inizio mi sono detto "non la vuole perché non vuole elemosina" ma poi ho incrociato quel suo sguardo e la sensazione che ne ho tratto era che lei davvero non volesse la coperta. Da nessuno.
Mentre andavo via però, "sconfitto" giravo l'angolo della via di casa e pensavo che se avesse accettato con un sorriso, mi sarei sentito buono, bravo, migliore e ho pensato che sarebbe stato molto "caritatevole". Una bontà da manuale, ecco, sì.
Una elemosina forse non ipocrita, ma che sembrava ipocrita ed ho sentito - per un solo momento, breve, netto - che il suo rifiuto aveva reso l'umanità meravigliosa. Più reale del "vero", che spesso sembra stupido.

Ma è stato un istante. Tanto breve da riuscire a stento a farne un ricordo.



Ora ti devo salutare, ché non ho più gettoni. Un alibi d'acciaio per chiudere una telefonata e tornare con la mente a quella stupida cabina.
A quella stupida vecchia, che è riuscita a farmi sentire per un istante così euforico e per una notte intera così triste.


Buonanotte, amore mio.

[la cornetta riagganciata piano, schermo nero, rumore di gettoni scaricati nella cabina telefonica misti a passi che si allontanano spaccando ghiaccio e pressando neve]

domenica 8 gennaio 2012

Little wonder


Sin dalla prima invenzione dei treni a vapore, dall'introduzione del viaggio su ferro si è potuto apprezzare un fenomeno legato alla novità dello spostamento veloce: questo stesso fenomeno era molto diffuso nei primi tempi e solo col passare dei secoli e con la rivoluzione sociale collettiva, il numero di individui soggetti è calato. Tuttavia anche oggigiorno, nell'era delle comunicazioni di massa e dello spostamento di informazioni quasi istantaneo, è possibile osservarlo. Su ogni treno, lanciato per città e campagne, puoi trovare sempre, almeno una persona - spesso sono bambini - che ancora sperimenta la pura meraviglia di quel viaggio. Non importa la distanza percorsa; non importa il motivo dello spostamento. E' un fenomeno legato semplicemente alla "dimensione" del viaggiare. E' uno stupore che viaggia a sua volta, ma nella mente, quando il corpo supera veloce grandi spazi e i vigneti sono una piccola macchia nel paesaggio; i frutteti un tocco di colore il cui profumo è più dolce, perché lo puoi solamente immaginare.

Col giusto occhio, una buona dose di pazienza e del tempo a disposizione, puoi trovare il compagno viaggiatore che ancora trasuda quello stesso senso di meraviglia nato centinaia di anni fa e che - stando agli studi più recenti - sarà sempre duro a morire.
Perciò se ad un certo punto ti stai annoiando, lascia il tuo posto a sedere e cammina tra i vagoni (puoi fingere di essere diretta al bar del treno o di stare cercando un amico) e tieni gli occhi aperti. Da qualche parte c'è un ragazzo, una ragazza, un vecchietto o una bambina che ha lo sguardo puntato al paesaggio che scivola accanto al treno. Quello sguardo è la più comune esemplificazione di "viaggio nel tempo". Incrocialo ed osservalo come se fosse uno Stradivari al museo reale di Madrid, perché quello sguardo ha fatto un altro viaggio, per arrivare sino a te. Un viaggio che parte dal carbone nelle locomotive, attraverso i decenni, i secoli, la Storia e tutto quanto.

domenica 13 novembre 2011

Nuova città

Chiunque mi conosca sa bene quanto io detesti tornare in puglia per le feste comandate (un'espressione che ho sempre trovato ridicolmente paradossale) e quanto velocemente io sia scappato dalla città in cui sono cresciuto.
Quel che ignorano è il mio profondo amore per il sud. In moltissime circostanze sono felice, anzi orgoglioso di essere meridionale. Il mio amore per la mia terra è un po' una ruga come quelle che vedi sul viso ad alcune signore di una certa età. Loro la coprono, la ruga, la stirano, la vestono perché non è bello averne, ma non si scappa.
Quando il sudore e la fatica ti lavano il viso, quando tutta la sofisticatezza non ha più ragione e forza d'essere, allora la ruga riaffiora. Sembra una cicatrice, per quanto è profonda e basta un colpo d'occhio per riconoscerla: "quello lì è di giù...". Quando non è l'accento o il dialetto a tradirci è l'attitudine... quella inquietante capacità di godere del bello pur restando sempre in allerta. Perché un buon genitore meridionale trova sempre il modo di insegnarti che l'orrore, il pericolo e la violenza sono dappertutto. Esattamente come la bellezza.
Il mio legame con quella terra piatta che è il Tavoliere è qualcosa che ti prende allo stomaco; un lembo di pelle che hai provato anche a strappare, prima di capire che soltanto provare a tirarlo fa malissimo; prima di capire che quand'anche ci riuscissi avresti strappato via un pezzo di carne che apparteneva a te.
Crescendo ho ritrovato un equilibrio con quei luoghi, non senza sforzo, ma in realtà anche senza alcuna volontà di farlo.

Raccontare il Sud è difficile perché bisogna trovare il modo giusto, che è sempre una strada impervia, dato che passa attraverso ricchezza e sopruso, bellezza e dolore, ferocia e buon cuore, ingegno e povertà. Poi però stasera ho trovato un breve filmato in cui Erri De Luca parla di Napoli. E allora sono venuto qui, per prenderne nota e cercare ancora un'altra volta di non dimenticare da dove vengo.


venerdì 4 novembre 2011

Tzunami


Apro la porta del mio alloggio e scorro la mano sulla parete adiacente per cercare l'interruttore della luce. Certe abitudini sono dure a morire e i polpastrelli passano le venature del muro in cerca della plastica. Sento sotto le dita le rughe del fango rappreso e solo allora - sarà passato un minuto buono - ricordo che non c'è nessun interruttore.

Nel luogo in cui dormo ora non c'è corrente, ma io proprio non mi ci sono abituato. E vivo qui da più di un anno. Non dico che tutte le sere faccia questa cosa di cercare lungo la parete, ma se sono distratto, sovrapensiero, non ci penso e la memoria fisica prende il sopravvento.

Nella casa in cui vivevo prima avevo appeso un quadro alla parete sopra il letto. Tecnicamente si trattava di una verniciatura su legno, come il commesso che me l'ha venduta ci aveva tanto tenuto a precisare. L'avevo avuta ad un prezzo scontato. Una signora se l'era fatta fare apposta, ma il risultato secondo lei non era all'altezza delle aspettative. Così l'ha lasciato a loro, senza pagare un centesimo.
Poi, qualche settimana dopo, nel negozio sono entrato io.
Si tratta di una copia di un'illustrazione giapponese; raffigura una enorme onda negli istanti immediatamente precedenti allo schianto. Sotto di essa una piccola imbarcazione di pescatori scivola nella valle d'acqua formata dal moto ondoso.

Ecco, per me vivere qui è un po' così. Vivere qui è uno schiaffo sul viso ogni volta che mi distraggo. E quando ero a "casa" ero sempre distratto.
Ci sono altri come me che hanno scelto di venirci a vivere, ma per loro è una specie di missione; per loro è una cosa sacra. Per loro l'idea di poter morire prima ancora di aver finito un pasto o mentre stai camminando lungo un qualsiasi sentiero è il rischio da accettare per un bene più grande.
Per me è diverso e me ne vergogno molto. Non sono qui solamente per fare del bene a qualcun'altro... sono qui anche per me, ma non posso certo raccontarlo in giro. Certi giorni mi sento quasi come se fossi qui solamente per me.
Sono i giorni in cui finiamo di costruire qualcosa, per esempio. I giorni in cui la gente che ti ha aiutato nel lavoro, la stessa gente che ha sudato insieme a te, ti guarda come se avesse aspettato una vita intera il tuo arrivo. E gli sguardi sono silenziosi, sì, ma carichi di una gratitudine violenta, struggente. Quel tipo di riconoscenza possibile solo quando l'aspettativa di vita non è più nella culla protetta dell' Occidente.

Ho fatto per anni quello che viene chiamato "lavoro di concetto". Vale a dire che ho sfruttato studi e cervello per avere nuove, buone idee. Innovazioni, avanguardia tecnologica, alte prestazioni, sempre strizzando l'occhio a moda e design... e invece ieri ho finito di costruire un pozzo. Un pozzo per l'acqua, con altre venti persone. L'abbiamo scavato, rivestito, ripassato ed abbiamo costruito un enorme meccanismo per pompare l'acqua sino alle cisterne. Un cazzo di pozzo. E mentre eravamo lì, cinque persone a sollevare un enorme tubo di ferro, ho ripensato al quadro in camera da letto.
Ho ripensato al fascino che ha sempre esercitato su di me. Al fatto che proprio l'acqua, un elemento senza forma, potesse acquistare una forza tanto grande e distruttiva grazie al semplice movimento. Grazie al fatto di muoversi insieme, tutta quell'acqua. E ieri sera, mentre andavo a dormire uno di quegli uomini mi ha salutato con un sorriso sdentato, dicendomi "l'unione fa la forte", così, in italiano mangiucchiato. E' una frase che mi ha sentito ripetere mentre lavoravamo. Aveva voluto sapere cosa significasse.

"...la for-ZA, fa la for-ZA", gli ho risposto sollevando la mano, senza smettere di camminare.

E non ho potuto fare a meno di pensare al mio quadro, che chissà ora dov'è. E un pochino anche alla mia vita, che in questo luogo si è fatta per necessità più compatta, meno rarefatta da problemi che qui semplicemente non riesco ad avere più.
E mentre spegnevo la lampada, quella notte, tossendo via tutto il cherosene sparso in aria, mi sono chiesto se ne sia uscita davvero più forte, la mia vita, proprio come l'onda del quadro. O se questo sia il mio momento sacro; quella manciata di istanti in cui l'onda è forte e violenta. Quella manciata di istanti che può esistere solamente prima dello schianto.

sabato 17 settembre 2011

Tenderness is a short blanket


La parola "tenerezza" mi ha sempre messo addosso un profondo disagio. La tenerezza infatti è una coperta troppo corta, che non sarà mai adatta a scaldarti le spalle ed i piedi, a meno che non sia tu a raccoglierti in posizione fetale per poterci stare tutto intero. Ciò non ostante può nascondersi nei frangenti più impensabili.

Tenerezza è guardare Furio, gigantesco e scontroso padrone del segugio del terzo piano, mentre gli prepara da mangiare. Non appena la ciotola sfiora il pavimento, il quadrupede ci si avventa, infilandoci quasi per intero la testa dentro. Allora il padrone, con un gesto tanto delicato da non sembrare appartenere alla sua gamma di movimenti, solleva entrambe le orecchie di Waldo per tirarle fuori e poggiarle lentissimamente a terra. Tiene le mani a coppa e compie l'operazione con attenzione quasi religiosa.

Tenerezza può essere anche Kashmira - quattro anni, indiana, occhi grandi e vivaci - quando porta a suo padre i "tesori" frutto di una caccia nel parco di via Maggi (via Casilina, Roma, Italy). Tappi lucenti di Peroni e cocci di Heineken; mollette per i panni dai cento colori e graffette plastificate rosa; si siede accanto al papà ed inizia una spietata selezione: cerca i tesori tra i tesori, perché dovrà poi - la cito testualmente - "darli a mamma". Ma la mamma di Kashmira ha lasciato il mondo, in una ideale staffetta, quasi nell'istante in cui la bambina vi è giunta.

Tenerezza a volte può essere assistere ad uno spettacolo di fuochi d'artificio durante l'estate, ma senza rivolgere lo sguardo alle esplosioni direttamente. L'unico modo che hai di guardarli è attraverso il riflesso degli occhialoni anni '70 del nonno di una famiglia di "forestieri" in affitto al primo piano. Tutti abbronzati, dormono in sei nello stesso piccolo appartamento soppalcato ed ora sono affacciati a godersi lo spettacolo dall'alto del balcone. I loro volti sono un misto delle rughe che li solcano e di una meraviglia che il tempo ancora non è riuscito a portar via con sé.

Ed infine, trivialmente, tenerezza può essere svegliarsi allungando un braccio dall'altra parte del letto, finendo col tastare solo il materasso vuoto, le lenzuola fresche ed un piccolo biglietto di carta gialla, su cui con poche parole e qualche linea stilizzata, la persona con cui hai spartito il sonno, l'odore e la carne, cerca di dirti che per lei un qualsiasi "altrove" è inconcepibile. Non dopo la scorsa notte, quantomeno. La stanza è invasa dal profumo del caffè; la tazzina fumante sembra guardare proprio te, dal ripiano del comodino.

lunedì 4 luglio 2011

Il sesto giorno

[soundtrack: Mount Wroclai (Idle Days) - Beirut - Gulag Orkestar (Ba Da Bing! 2006)]

Il primo giorno sono stato svegliato - al solito - da un forte brivido all'altezza dei reni. Mi sono rigirato nel letto, invocando clemenza a Morfeo perché mi lasciasse dormire ancora. Così avrei staccato il cervello dal resto del corpo e sarei riuscito a far passare altro tempo.
Del resto il trucco è quasi tutto lì: riuscire a far passare il tempo.

Naturalmente in quel limbo, sospeso tra la veglia ed il sonno, mi sono chiesto quanto ancora avrei dovuto aspettare; ho cercato di immaginare un risveglio diverso, ma esistono pensieri più scomodi e pericolosi di altri. Così ho preferito cambiare questo con l'altro. Più malinconico e più intimo, ma pur sempre utile allo scopo che mi sono prefissato.
La mattinata è passata lentamente, ma inesorabilmente.

Il secondo giorno, nel pomeriggio, mi sveglia la voce pastosa di Giovanni Lindo Ferretti, proveniente dalle casse del portatile: "...allora un lampo unisce gli occhi e il cuore con borbottio di tuono / muovono le parole / e torna il Tempo, ritorna l'energia / torna il mattino, vuoto. Vuoto...". Apro gli occhi mormorando - se possibile con voce ancor più impastata dell'autore - le ultime parole della strofa, mentre il pianoforte ricama accordi in chiave bassa attorno al cantato sentimental-oltranzista del Ferretti.Cervello in avvio: "attendere il caricamento..."Scorro mentalmente tutti i muscoli di cui riesco a ricordare il nome; cerco di sentirli singolarmente, come chiamandoli all'appello. Una specie di palpata mentale per controllare che non ci siano strane sensazioni a bloccarli, farli dolere o affogarli nell'acido lattico, che per settimane oramai ha fatto da padrone tra le mie fredde giunture.Ma non lo sento.La mano sinistra allora scivola lungo la schiena; partendo dal Grande Dorsale scende lentamente sino all'altezza dei reni. Il gesto è pigro e trascinato dal dormiveglia, ma la mia attenzione è totale: niente.Non sento niente.Non sento brividi; non sento freddo; non sento dolore. Lo stupore allora mi ha fatto l'effetto di quel caffé che nel frattempo ho iniziato a desiderare morbosamente.Il terzo giorno ho aperto gli occhi con il viso schiacciato contro il cuscino di piume. Sembra che faccia più caldo del solito. Sembra che la scorsa notte sia passata con grande facilità.Sembra una bella giornata, dopotutto.Devo lavorare come un matto e mi metto seduto. Poggio il laptop in grembo, dando così un meritato rispetto al nomen-omen che gli americani hanno dato al dispositivo. E si comincia: serrato, concentrato, veloce e con la testa sgombra da qualsiasi distrazione, sino alle 19. Non ho neanche avuto il tempo di mangiare un boccone o farmi la doccia che dovrei proprio fare. Avrei voglia di uscire, ma non ne ho il tempo.Il quarto giorno mi scontro con l'evidenza dei fatti: ieri non ho avuto il tempo di fare nulla: ieri non ho bevuto lo sciroppo. Ieri non l'ho fatto.E' successo.
Per distrazione, per i mille impegni, quel che è... ma è successo. In modo naturale. Tant'è che semplicemente non me ne sono accorto. Ho cercato per mesi di riuscirci ed è stata una interminabile sequela di fallimenti. Molto spesso umilianti ammissioni di debolezza mi hanno portato di qualche passo indietro... 
Stavo facendo fiasco giorno dopo giorno e con quella stessa frequenza mi procuravo alibi di ogni tipo e genere, purché scaricassero dalle mie spalle la colpa di quella incapacità di agire che mi ha legato peggio di un grosso cane alla catena del giardino.

Ed ora la catena è sfilata dal gancio. Ora posso decidere di scappare. Avrò ancora addosso tutto il metallo freddo, sporco, arruginito, pesante, ma se decido di farlo posso andarmene via dal giardino cui ho fatto la guardia per tutto questo tempo. Lento pede, trascinando le mie zavorre, posso - ancora un'altra volta - andare via da qui.

Mi alzo e vado a farmi una doccia. Mi asciugo, mi metto i primi vestiti puliti a portata di mano ed esco. Ed è da te che vorrei correre. Vorrei venirti a raccontare la sensazione di puerile onnipotenza che mi ha portato davanti al portone del tuo ufficio. Lo farei quasi strillando dallo stupore, che ancora non me lo tolgo di dosso. E credimi: mi vedresti brillare gli occhi.

Vorrei prendere del sushi e mangiarlo su ponte Sisto, guardando il Tevere sotto di noi e le statue degli imperatori uccisi dal progresso sopra le nostre teste. Vorrei, ma non lo faccio, perché non sei più tu, quel centro di gravità intorno al quale seguire l'ellittica: una traiettoria definita dall'attrazione. La cosa più intrinsecamente sensuale che ci sia nel cosmo.

Così chiamo qualcun'altra e divido con lei questo momento. E' piacevole, ma non la stessa cosa. Non è mai la stessa cosa.Il quinto è giorno di grande orgoglio! Il corpo risponde come deve; la mente è iperattiva come si confà alla fine di un lungo e desiderato letargo. Ritorna l'energia, torna il mattino, vuoto. Torna la vita. Tornano le emozioni, le persone, le relazioni; torna il vigore e con lui il rancore, l'amore per quell'uomo che negli ultimi dieci anni avevo deciso di ignorare: me stesso.Durante tutto il pomeriggio mi comporto come un neonato nel corpo di un adulto: guardo, tocco, pizzico e ascolto: non mi pare vero di essere "qui ed ora".E sorrido, per dio. Sorrido. Come non succedeva da quando siamo andati in tram a quella mostra terribile su Chagall. Il giorno in cui Roma era calda, afosa, nel bel mezzo di un gennaio inspiegabile, che portava con sé l'ingenua promessa di restare insieme, tu ed io. Il giorno in cui mi hai guardato, seduta, ma dondolante insieme a tutti gli altri passeggeri, dicendomi con un sorriso ed uno sguardo indimenticabile: "sei molto bello, con questa luce, sai?".
Posso vedere la mia espressione attraverso lo specchio. Riconosco un volto diverso dal solito, ma allo stesso tempo più familiare di quanto non sia riuscito ad essere negli ultimi anni.

La sera sono in strada.

Riprendo i fili di rapporti sopiti dal sedativo della mia pigrizia farmaco-indotta. Parlo con le persone e ricomincio a sentirle davvero. Nel bene e nel male - certa gente sembra che non possa proprio annoiarti più di così - mi sento come ributtato in un mondo fatto di individui alla ricerca di una connessione umana. O forse solamente di un paio di orecchie a cui affidare le proprie perle di saggezza, le piccole depravazioni socialmente accettabili e gli episodi di vita vissuta. Alcuni persino con tanto di morale in calce...

Il sesto giorno mi siedo davanti al portatile che fuori è ancora buio, ma tra poco il sole sorgerà. Inizio a spiegare disordinatamente gli eventi dei giorni passati come si fa con gli oggetti tirati fuori dalla valigia al ritorno da un viaggio. Ho bisogno di osservarli nel loro insieme; devo trovare il "fil rouge" e capire, finalmente, in quale punto io mi trovi, in questo "camino de Santiago" surreale e allo stesso tempo vero come poche altre cose lo sono state, ultimamente. Ed è così che penso ancora una volta a te. E decido di mettere le mani aperte sulla tastiera iniziando a scrivere: "Il primo giorno sono stato svegliato...". Del resto devo lasciar uscire in qualche modo questa cosa dal petto. O anche oggi sentirò questo strano plasma bruciare e smanierò dal desiderio di strapparmi la pelle di dosso 


" ...e voi cosa volete? di che cosa vi fate? dov'è la vostra pena? qual è il vostro problema? perché vi batte il cuore? per chi vi batte il cuore?..."
[ CCCP - "Valium, Tavor, Serenase" - Affinità - Divergenze tra il Compagno Togliatti e Noi (1986) ]

martedì 8 marzo 2011

pensieri, parole, opere o missioni


"Quando ero poco più che una bambina, con i miei genitori ci trasferimmo nell' Illinois, vicino Skookie, dove c'è il carcere.
Passammo lì cinque anni, prima di tornare in Francia.

Vivevo in una ricca cittadina bigotta di nome bridgeville e due volte a settimana, non me lo scorderò mai, mia madre mi portava in chiesa. A bridgeville dovevi andarci per forza, in chiesa, altrimenti eri sicuramente di dubbia moralità.
Ricordo le ore passate con le gambe ciondolanti sui banchi di ebano, neri, lucidi.
Ascoltavo mia madre, col suo accento francese, stridente accanto alla cadenza dell'Illinois, ripetere ancora ed ancora le stesse preghiere. Si poteva ascoltare la nenia delle centinaia di voci ripetenti all'unisono i salmi.
Per mia madre era diventato un suono da trance meditativa. Ricordo che a tavola una domenica disse che per lei era un po' come fare yoga.
Lo yoga è una cosa che una donna indiana aveva fatto fare a mia madre per aiutarla con certi dolori che aveva iniziato a sentire alla schiena,. Si sedevano in strane posizioni, respirando profondamente e ripetendo frasi strane. A me è sempre sembrata tanto buffa, ma lei diceva che funzionava.

Andare in chiesa per me era diverso. Stavo imparando con difficoltà l'americano ed ogni parola nuova era una preziosa informazione in più per imparare a parlare. Non avevo amici e a bridgeville nessuno parlava - né tantomeno capiva - il francese.
Il fatto che si ripetessero spesso le stesse cose era un corso perfetto. Potevo provare e riprovare a pronunciare bene le parole nuove. Bastava che cercassi di non sentire mia madre.

In una preghiera in particolare c'era una frase che non avevo mai capito. Questa recitava "...pensieri, parole, opere e omissioni..." ed io, bambina, non conoscevo certo la parola "omissioni" e così fui per anni convinta di dover chiedere perdono al Signore per "pensieri, parole, opere o missioni" ed in una consequenzialità infantile decisi che avrei chiesto perdono solo per le missioni fallite. In caso di successo era chiaro che il mio intento fosse ben visto, nell'alto dei cieli; fallire voleva dire aver tentato qualcosa che a Dio non andava affatto bene, quindi gli avrei chiesto perdono. Per me bambina quel ragionamento non faceva una grinza.

Un giorno parlai a mia madre di certe mie perplessità riguardo a questa storia e lei, ridendo di gusto e continuando a chiamarmi ma pétite mi spiegò delle omissioni: le mancanze, quel che avremmo potuto e forse dovuto fare, ma non abbiamo fatto.

Questo è il tuo peccato, Sebastiàn. Omissioni. Tutte le volte in cui mi hai tenuta lontana, in cui non mi hai neanche permesso di starti accanto; ogni volta che mi hai lasciata spettatrice della tua vita, ogni lettera non scritta, ogni silenzio col quale hai generato e poi cresciuto la distanza tra di noi. Tutto quello che avresti potuto fare, ma hai deciso di omettere.
Ci ho messo tanto a smontare questa equazione, come dici tu, ed ho ridotto migliaia di sfumature diverse, di piccoli, singoli dolori che mi hai fatto esplorare in tutto questo tempo ad un solo semplice concetto.
Vuoi stare con me, ma non importa che io sia felice.
Importa che tu sia felice.
Ed ora come ora ti rende più felice l'idea di stare con me. Ma questo da solo non basta; non può bastare. Non deve bastare. Io non voglio che basti. Io voglio molto di più, Sebastiàn Munìtz.

Devi avere a cuore che io sia felice. Perchè io ho a cuore che tu lo sia.
Ma tu questo non ce l'hai nel sangue. Ed io non ho scelta se non quella di allontanarti, perché tu non possa ferirmi."



E detto questo, senza essersi scomposta per tutta la durata  del suo monologo,  alzò i tacchi e mi lasciò lì, a bocca semiaperta, seduto al tavolo del Tom's. Mi era anche arrivata la bistecca. Non ne ho toccato neanche un boccone.
Tutto mi sarei aspettato da quell'invito a cena, fuorchè che mi lasciasse. E lo fece senza voltarsi.

Il juke box suonava "don't" di Elvis Presley.

Ma questo successe quattro anni fa, ormai. Molto prima che venisse a vivere da me. Sophie sa essere determinata, ma sappiamo entrambi che la sua tenacia è commisurata al cedimento che ne seguirà.
E' passionale. Ed io questa cosa di lei, l'adoro.

martedì 22 febbraio 2011

Roma in primavera

(immagine scattata da _stooge: suca, GettyImages)

Niente si avvicina a Roma in primavera. Prima vera capitale italiana (che poi non è vero.. la prima mi pare fosse Torino.. ma mi serviva il gioco di parole..), la città (quasi) più sporca della Nazione offre una serie di interessanti spunti per il vivere moderno, quando vuole.

Mi trovo nel parchetto (parchetto un cazzo.. più cemento che piante) sotto casa mia e siedo su una panchina soleggiata (Dizzy Gillespie - on the sunny side of the street) ad un orario - le nove del mattino - in cui normalmente non esisto nemmeno. A livello molecolare. Davvero.

Una "pazza" (e ce le devo mettere, le virgolette) cammina avànt e indiè per lo spiazzo prendendo per il culo prima una tizia che le passa accanto sculettando come un cane alla ciotola e poi me, che me ne sto seduto difronte a lei. Si siede sulla panchina a lei più prossima poggiandosi completamente allo schienale e fumando una sigaretta invisibile, fissandomi con un ghigno, che le restituisco cortese.

A sinistra un tizio ravana nei cassonetti cercando metallo. Ha accanto a sè una carrozzina per bambini carica di lamine, sbarre, coppe, caschi e cianfrusàme. Un cassonetto dopo l'altro cerca i suoi tesori e li ripone con cura, dimostrando confidenza col tetris. Poco più in là un asiatico porta in giro il suo bambino. Lo incrocio alzandomi dalla panchina e camminando in via Zenodossio. Mi vede fumare e sposta il pupo dall'altro lato. Ed io sposto la sigaretta lontano dal pargolo, con gesto accondiscendente, mentre la "pazza" attacca a inveire contro un'auto vuota, parcheggiata: "è tutta colpa tua! tutta colpa tua!!". Vado davanti alla vetrina di Zenoarte e mi guardo i mangiatori di patate di Van Gogh. Fantastico poter guardare dei capolavori sotto casa tua.. copie? Sì e con questo? Se sono fatte bene..

Tornando mi fermo al bar degli indiani, che "ci rubano il lavoro".. e intanto per trenta centesimi mi danno un boccale di minerale da dissetarci il Ghana.. al bar "italiano" poco più in là per cinquanta mi danno acqua in un bicchiere da cicchetto..tzè..

Guardo il cielo - blu di pol niùmmon - e tiro un bel respiro. Lo smog - che, cazzo, c'è! - non si sente affatto e mi sento sollevato. Penso alla cromoterapia, che mi ha sempre fatto ridere. Eppure questa lo è, se mi sembra tutto più pulito..

Tiro su il naso ed una bambina - grassissima, per dio! - mi sorride dal quarto (quinto?) piano di un palazzo e mi indica un boxer che "pascola" nel parchetto. Guardo il boxer, che guarda un gatto nero a pelo lungo, che guarda un cassonetto, che guarda la gente buttargi dentro le scorze del progresso. E mi sento leggero da far schifo. E allora sorrido. Alla bambina (che disgusto..), al boxer (che paura..), al gatto (che felide!), al cassonetto (che ironia) ed alla pazza in mezzo alla piazza, che mi fa l'occhiolino.

sabato 19 febbraio 2011

Unisci i puntini

La vibrazione del tram mi sposta tutto e non riesco nemmeno a leggere bene il display del lettore mp3. Non che serva granché: so benissimo cosa sto ascoltando, ma i fosfori verdi ballonzolanti sono abbastanza curiosi da osservare.
Di fronte a me una signora dai capelli rossi si abbraccia e trema dal freddo, anche se freddo non ne fa. Tira su col naso. Avrà la febbre. Speriamo non me l'attacchi.

Fuori dal finestrino la città scorre lenta, al ritmo delle rotaie, insensibile al traffico che intasa le strade tutte intorno. Chissà se i miei compagni di tram vedono questa città come la vedo io... A volte penso che non esista. Penso che la città sia solo un'immagine costruita dai puntini senza numero che l'abitano. Unisci i puntini. Vedi che cosa ne esce fuori.

E poi Roma è così: senza musica in un modo. Con la musica in un altro. Iniziano le prime note di Grace ed il paesaggio cambia. I marciapiedi ancora bagnati della Prenestina; gli indiani affacciati ai chioschetti della frutta; i cinesi che scaricano cartoni stracolmi di cianfrusaglie, senza sosta; i rumeni che bevono birra dal kebabbaro, ma l'hanno comprata altrove, ché lui - il kebabbaro - la birra non la vende. Glie lo ha detto Allah.

"wait in the fire, wait in the fire"

Poi tutto si mescola e le razze, i colori, gli odori si mischiano e prendono forme nuove. Il curry con il sedano e le mandorle e il ragù. Il melting pot, il calderone fumante delle metropoli, ha un odore pungente a quest'ora. Penso che vorrei viaggiare; visitare i luoghi da cui queste persone sono venute, ma sempre per poi tornare qui.

La signora dai capelli rossi è scossa da un brivido. Ha le occhiaie viola e la pelle diafana. Un vecchietto attacca bottone con la ragazza seduta in fondo. Un brivido percorre anche me, mentre inizia Jockey full of bourbon. La città cambia di nuovo forma, mentre il tram procede dritto nel ventre di San Lorenzo, sotto la sopraelevata che ancora gocciola per la pioggia ormai smessa. D'un tratto tutti mi sembrano nascondere qualcosa. Tutti mi sembrano custodi di vite sfregiate e vere come questa città. Gli occhi sempre puntati fuori dal finestrino. Guardo la luce cambiare.

Una donna dalla pelle nerissima accarezza la bambina accanto a sé. Potrà essere sua nipote. "dormi tesoro?". E - sì - tesoro si era addormentata. Ha uno zaino coloratissimo con su dei pupazzetti giapponesi che hanno puntualmente gli occhi enormi. Ad occhio e croce lo zaino pesa più della bambina, che con le sue treccine contorte sembra ancora più piccola. Si strofina le palpebre e si gira, incrociando il mio sguardo per un breve momento.

"hey little bird fly away home... your house is on fire. children are alone..."

La rossa suona per la fermata e si tira su in piedi. Per una strana angolazione le si vede parte del collo, avvolto in un foulard lercio. Ha diversi buchi su quel collo grinzoso. Fantastico di vampiri che l'hanno morsa questa stessa notte, trasformandola in una creatura notturna, ma la realtà è molto più cruda di così ed a modo suo la signora appartiene alla notte per davvero.

"there are things I've done I can't erase. I wanna look in the mirror and see another face"

Il tram continua ad andare ed ho la sensazione che entri nella città come il seme in un ovulo, per fecondarla con noialtri, che la faremo crescere, una casa alla volta, una capanna di cartoni alla volta, avvolti in piumini sudici o in lenzuola di seta, in cappotti fuori stagione e giubbotti alla moda. E Roma, costantemente gravida, ci abbraccia tutti come figli illegittimi, tra le gigantesche braccia scure del Raccordo Anulare.