giovedì 17 febbraio 2011

Ward Six

Il mio primo incontro con Sara fu piuttosto particolare, a pensarci ora. Il più delle persone si vedono per la prima volta in un locale, a casa di amici, per la strada o in un ufficio postale. Io vidi Sara mentre la trasportavano in una delle stanze dell'istituto psichiatrico in cui mi trovavo. Ora non facciamoci strangolare dai preconcetti. A tutti capita di avere qualche problema, qualche questione irrisolta. Io avevo le mie e sono finito al San Patrick nell'autunno del 95. Sara era piccola, magra da fare pena; bella a suo modo, ma il suo viso, le rughe e la pelle rovinata tradivano parte delle esperienze che l'avevano fatta trasportare, sollevata per i gomiti, dentro il reparto numero sei. La cosa che attirò la mia attenzione fu il suo peso. Voglio dire che mentre la portavano dentro, la stavano trasportando, in due, senza che i suoi piedi sfiorassero il pavimento. Ed in più non parevano fare alcuno sforzo. A me sembrava che volasse, che fluttuasse. L'immagine mi colpì molto. Era... poetica a suo modo. Lei entrava nella miseria della stanza imbottita, volando. Pensai che era così bella; che mi sembrava una creatura celeste. Un po' danneggiata forse, ma diciamocelo... chi non lo è, in un modo o nell'altro.

Rimasi ad osservarla per giorni. Beh, sei giorni, per l'esattezza. Sara era vittima di una severa dipendenza da oppiacei. Pare che si imbottisse di tutto quello su cui riusciva a mettere le mani: morfina, ossicodone, eroina, oppio, ma anche benzodiazepine e tutta quella costellazione di sostanze che l'Uomo ha inventato per curare il dolore, dimenticare le proprie miserie o semplicemente ovviare a quella terribile esperienza che può essere il vivere moderno.


Arrivò un lunedì qualsiasi. Ricordo che uno degli infermieri, Aldo, disse ridacchiando qualcosa del tipo "lunedì infornano quelli nuovi". Mi venne in mente questa immagine orrenda di un gigantesco forno in cui ci riversavano tutti. In effetti avrei potuto arrivarci prima a capire che Aldo fosse una testa di cazzo. Non c'è fumo senza fuoco.


Passai quasi tutta la settimana ad osservarla dalla finestrella della stanza di isolamento. Non credo mi potesse vedere. Passava le ore a torcersi, gemere, tremare e vomitare. Una delle prima volte vomitai anch'io. Sono debole di stomaco e vederla rimettere mi diede una nausea incredibile.

La prima volta in cui mi sentii davvero attratto da lei fu quando vidi la sua sagoma impressa nel materasso. Il lenzuolo era una sindone in cui il sudore della disintossicazione aveva disegnato la sagoma del suo corpo rinsecchito. La curva delle spalle, le braccia, la vita, le gambe. Avrei potuto ricalcarla, se solo mi avessero lasciato entrare lì dentro per una decina di minuti. Ma in certi istituti esistono certe regole, che certe persone, in quei certi istituti, fanno rispettare a costo di apparire meno umani di quanto non si converrebbe.

Andavo lì davanti ogni giorno e la guardai percorrere quella gigantesca parabola tipica delle disintossicazioni. Ero lì anche il giorno in cui la fecero uscire. Se possibile era ancora più magra, più sciupata e non ostante fosse finalmente libera dai dolori che l'avevano torturata nelle scorse giornate mi sembrava più triste. Sensibilmente più triste. Mentre usciva dalla stanza non mi degnò nemmeno di un'occhiata. Decisi allora di avvicinarmi a lei e di presentarmi.

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