Bessie

Ci sono persone inclini ad indugiare nella malinconia. Che poi sembra niente, ma su quelle stesse persone ha effetti devastanti. Ci si comincia ad immergere lentamente e prima di accorgersene, si è a mollo sino alle ginocchia.

La vecchia Bessie era così. Un kamikaze emotivo. Una donna capace di acrobazie umorali da fare impallidire i circensi. E quando si faceva prendere dalla malinconia iniziava a cantare.

Ora, potete provare ad immaginarla, questa enorme donna nera come nemmeno l'ebano, seduta su una sedia traballante - sempre la stessa da anni - accanto alle scale del palazzo in cui abitava insieme a portoricani, filippini, messicani, bengalesi e quant'altro.

Quando Bessie cantava, potevi startene a cinque isolati dal punto in cui si trovava lei e continuare a sentirla comunque forte e chiaro. Aveva una voce che avrebbe fatto resuscitare i morti. Cantare per lei era l'equivalente di una preghiera. E in certe occasioni, quando era in vena di gospel, quando non era infastidita dall'idea di rientrare nel peggiore dei cliché, era letteralmente una preghiera.

La mattina di cui sto parlando era proprio una di queste. E Bessie cantava insieme ad altre quattro donne, sue vicine di casa.
Sovrastandone le voci, con la sola forza dei propri polmoni, stava cantando Oh come, let us go back. Ed io passavo per caso lungo la strada di casa sua.
E' così che ci siamo conosciuti.
La guardavo cantare, flaccida e sbracata sulla sedia, con i capelli sporchi e le occhiaie viola; i piedi gonfi tirati fuori dalle scarpe e i calzini bucati a gambaletto che a malapena coprivano le vene sui polpacci. E per una strana sinestesia, che difficilmente riesco a spiegarmi, mi sembrava la donna più bella su cui avessi mai avuto la fortuna di posare lo sguardo.
E lei - ne sono certo - se n'è accorta immediatamente: senza smettere di cantare mi ha guardato negli occhi. E mi ha sorriso.